(pubblicato originariamente su Lo Spazio della Politica, articolo scritto a quattro mani con Andrea Danielli)
Il movimento dei makers negli ultimi anni ha continuato ad evolvere in nuove direzioni. Parte di questo processo è la creazione di un modello di finanziamento per i progetti hardware low-cost e di artigianato innovativo, un tipo di schema dotato di analogie con quello delle startup digitali ma con significative caratteristiche peculiari.
La creazione di incubatori focalizzati su startup hardware, come Lemnos Labs a San Francisco e HAXLR8R in Cina, sta accompagnando un interesse crescente interesse da parte di investitori e programmi di accelerazione per questo spazio operativo. Ad, esempio tra le notizie recenti si possono citare la presenza crescente di startup hardware negli ultimi batch di Y Combinator, una delle strutture di maggiore successo che vanta l’accelerazione di iniziative come Dropbox e Airbnb. Si iniziano a contare anche deal sempre più importanti, si pensi ai 10 milioni di Makerbot (che oggi è valutata 300) o al recente investimento di 10,7 milioni di dollari in Airware, società che sviluppa sistemi di guida per droni prima incubata da Lemnos Labs, da parte di investitori come Andreessen Horowitz e Google Ventures. Si pensi anche alla recente acquisizione di Makerbot, il principale produttore di stampanti 3D con ottica consumer, per 600 milioni di dollari da parte di Stratasys, operatore focalizzato sul segmento professionale. Infine, sta raggiungendo un nuovo livello di maturità l’utilizzo di strumenti di crowdfounding: sono sempre di più i progetti che grazie a piattaforme come Kickstarter riescono a raccogliere risorse significative, si pensi al caso dello smartwatch Pebble, prima incubato da Y Combinator, che nel 2012 ha raccolto più di dieci milioni di dollari tramite la sua campagna.
Anche se c’è molto entusiasmo a riguardo, non sperimentiamo ancora una “bolla” di startup hardware, simile a quella di fine anni ’90 per le società dot-com, come ipotizzato nel romanzo Makers di Cory Doctorow. Infatti, nonostante il dinamismo attuale, permangono molte reticenze da parte di fondi di venture capital e investitori tradizionali nel supportare iniziative di questa natura. Anche se i beni fisici sono accompagnati, per via della “tangibilità” dei prodotti, da una maggiore propensione alla spesa da parte di utenti e consumatori, ci sono dei colli di bottiglia rilevanti. In particolare, rispetto alle startup digitali, i progetti di hardware hanno significativi problemi di scalabilità legati alla distribuzione, il rischio di avere bassi margini e costi fissi legati alla produzione in volumi elevati. Gli investimenti presentano quindi rischi potenzialmente elevati. Inoltre bisogna ricordarsi che non tutti i progetti generati dal movimento maker saranno aziende in senso stretto, allo stesso modo in cui solo una parte infinitesimale dei siti web e delle applicazioni sono delle startup. Se guardiamo ai prodotti che emergono nel mondo dei makers, la maggior parte sono gadget, versioni open di originali chiusi, nuovi design più intuitivi, soluzioni a tratti geniali pronte per la vita quotidiana. A volte non si tratta di ricerca disruptive, ma di innovazione incrementale: gli strumenti a disposizione degli smanettoni al momento attuale non consentono di manipolare la materia al livello nanometrico né di creare organismi geneticamente modificati, i megacomputer da qualche petaflop sono ancora in mano a poche case produttrici.
In parte questo ci riporta alle origini del venture capital, ai tempi dei primi investimenti in semiconduttori e tecnologie elettroniche negli anni ’60 e ‘70. Dall’altro lato, oggi abbiamo delle leve innovative importanti: le tecnologie di prototipazione e produzione hanno un costo molto minore rispetto a prima, inoltre la struttura della catena del valore è cambiata radicalmente tramite l’apertura delle reti produttive globali. Oggi è possibile innovare anche solo hackerando l’esistente prodotto in Cina.
Nell’identificare il nuovo modello di finanziamento un altro elemento fondamentale è legato al non snaturare l’essenza dell’approccio open-source: senza di esso non ci sarebbe l’enorme capacità di sperimentazione che caratterizza il movimento maker, un flusso di creatività che è intimamente legato alla costruzione di comunità e allo scambio orizzontale di idee. Senza il modello open-source iniziative come Arduino non avrebbero mai raggiunto la scala attuale, che vive grazie alla collaborazione e all’intelligenza collettiva della comunità di riferimento.
Eppure l’open-source risveglia il terrore della commodity trap che colpisce la maggior parte delle imprese high-tech impantanate in virulente guerre di brevetti. E sfida alcune prassi dei venture capital, se è vero che gli investimenti in aziende innovative che hanno un brevetto sono il 43% del totale. La sensazione è che l’open-source sia una scelta quasi obbligata per prodotti che migliorano l’esistente, e allora i VC dovranno imparare a valutare correttamente nuove metriche come ampiezza, affidabilità, e motivazione della comunità degli sviluppatori. Il tutto senza dimenticare che i progetti hardware, nelle fasi iniziali e per i prodotti immediatamente commerciabili, possono anche sopravvivere con modalità di bootstrapping senza richiedere l’intervento di operatori esterni.
Sotto questo punto di vista servirebbe trovare un modo per “smontare e semplificare” il ciclo di finanziamento, in modo da trovare delle scatole appropriate per tutte le fasi: una prima fase di apprendimento e sperimentazione, dove dovrebbero essere dominanti grants e donazioni, potrebbe avere luogo all’interno di luoghi come i fablab o gli hackerspace, finanziati da sinergie pubblico-privato. Avrebbe poi luogo una seconda fase di prototipazione, dove strumenti come il crowdfunding e la microfinanza potrebbero essere determinanti, misurando per l’appunto la solidità della comunità che accoglie e nutre l’invenzione.
Infine, arriverebbe il momento per i venture capital. Pensare che possano semplicemente immettere denaro per consolidare il business ci porta fuori strada. Diventa complesso trovare la formula della sostenibilità, a fronte di costi fissi da soddisfare, si tratti di magazzini, impianti produttivi, anche solo di anticipi sulla fornitura del terzista cinese. Ecco allora che non conviene unicamente investire nella struttura dell’impresa finanziata, nelle risorse umane, nel sito di e-commerce. Conviene fornire servizi in outsourcing, appoggiandosi a realtà già esistenti o creando quelle che mancano, magari attraverso un pool di investitori.
Il problema dei makers non è solo inventare o produrre: è vendere. Diventa pertanto fondamentale avere, ad esempio, un sito multilingue e negozi situati in aree strategiche, vere vetrine per l’e-commerce. Una volta creata questa infrastruttura di vendita, i VC possono investire in nuove società cifre più contenute aggiungendo nel deal dei voucher da spendere nell’ecosistema commerciale precostituito. Identificare quali canali possano essere utili per facilitare la scalabilità dei progetti creati dal movimento maker è una sfida intellettuale aperta. Se risolta con i modi corretti, si potrebbe aumentare notevolmente il potenziale di trasformazione legato alla nuova ondata creativa legata all’artigianato e alle nuove tecnologie hardware.
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